XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XXVIII domenica T.O. anno APrima lettura: Isaia 25,6-10a

 

      Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.

Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre.

   Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.

   Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».

 

 

2  I capitoli 24-27 costituiscono una raccolta di oracoli apocalittici, di epoca post-esilica, inseriti nel libro di Isaia. Vi si descrive in particolare il banchetto che celebra l’intronizzazione del Signore.

v. 6 – Il banchetto simboleggia la salvezza universale realizzata nel regno dei cieli.

Il monte Sion sarà il luogo di questa celebrazione universale: il Signore preparerà il banchetto, descritto con immagini colorite ed esuberanti, per tutti i popoli.

v. 7 – La festa escatologica segnerà anche la definitiva e universale rivelazione del Signore: il velo che rendeva ciechi i popoli e la coltre che nascondeva la verità alle nazioni sono rimossi. «Il re presenta i suoi regali durante il banchetto: prima i popoli non vedevano il Signore, perché erano ciechi: ora il Signore stesso scopre i loro occhi perché possano conoscerlo» (L. ALONSO SCHÖKEL).

v. 8 – «Apocalisse» significa «rivelazione», e oracolo apocalittico non è sinonimo di catastrofe ma di salvezza. Il Signore vince la morte, vince il dolore e le lacrime; la parola del Signore farà cessare l’infelicità del popolo: l’oracolo sarà ripreso in Ap 7,17; 21,4.

vv. 9-10a – Segue il canto del popolo salvato, che esulta nel Signore e proclama le sue lodi.

 

Seconda lettura: Filippesi 4,12-14.19-20

 

   

        Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.

Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.  Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

2  La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il Vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo.

In chiusura della lettera Paolo ha parole toccanti di gratitudine nei confronti dei Filippesi per la premura che hanno dimostrato nei suoi confronti.

Tuttavia, egli ribadisce di non pretendere nulla: le tribolazioni e soprattutto una vita spesa al servizio del Vangelo gli hanno insegnato a far fronte a tutto, forte solo dell’aiuto di Colui che mi dà la forza.

v. 12 – Per due volte ripete «so vivere»; il terzo verbo, «sono allenato», era usato per i riti di iniziazione. L’oggetto — le circostanze che Paolo ha imparato ad affrontare — sono indicate da una serie di infiniti. Paolo è stato iniziato a tutti i misteri della vita, le vicissitudini della realtà quotidiana sono state come riti di iniziazione che lo hanno reso capace di far fronte a tutto.

v. 13 – L’apostolo qualifica la propria autosufficienza: «tutto questo» (ciò che ha elencato nel versetto precedente), posso affrontarlo grazie al Signore. Il segreto della sua indipendenza è la dipendenza da un altro, viene dal trovarsi in unione vitale con Colui che mi dà forza.

v. 14 – Ed ecco cosa possono fare di buono e giusto i Filippesi: diventare partners di Paolo, prendendo parte alle sue tribolazioni.

vv. 19-20 – Nei due ultimi versetti (seguono i saluti e il commiato) Paolo ripete il verbo «colmare» (pleroun) e la parola «bisogno» (chreia) che ha adoperato più sopra (vv. 16 e 18): là per dire che i Filippesi hanno dato a Paolo ciò che gli era necessario, qui per dire che Dio colmerà di doni i Filippesi per ogni loro bisogno. L’espressione «il mio Dio» è rara in Paolo. La conclusione è una doxologia.

 

Vangelo: Matteo 21,1-14

 

 

      In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:  «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.

Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.

   Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.  Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.  Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

 

Esegesi

 

Siamo nell’ultimo periodo del ministero di Gesù, la sua predicazione in Gerusalemme, dall’ingresso festoso e trionfale nella città (21,1-10) alla Pasqua.

L’evangelista raggruppa qui una serie di parabole che più si avvicinano al tema del giudizio, sviluppato poi nel cap. 25 (i due figli, i vignaioli omicidi, il banchetto di nozze; più avanti, le dieci vergini e i talenti).

Le tre parabole del primo gruppo sono poste in crescendo e legate fra loro: nella prima e nella seconda si parla di «vigna», nella seconda e nella terza di invio dei servi. Sono introdotte dalla domanda sull’autorità di Gesù (21,23), alla quale Gesù non risponde apertamente, ma appunto in parabole.

Nella prima Gesù si riferisce al Battista: «non gli avete creduto». È un verdetto di colpevolezza nei confronti di coloro che non hanno riconosciuto ciò in cui «i pubblicani e le prostitute… hanno creduto» (21,32). La seconda parabola parla di Gesù, il Figlio inviato per ultimo, e della pena inflitta su indicazione degli stessi ascoltatori (cf. 21,40-41): «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produrrà frutti»  (21,43). Infine, la terza parla dei discepoli, e raffigura l’esecuzione della pena. Il culmine si ha con l’ammonizione alla comunità, su cui pende la possibilità di questo destino di condanna (22,11-14).

     La parte conclusiva (11-14) dove si parla dell’abito nuziale, che manca nel parallelo di Luca, costituiva forse originariamente una parabola autonoma, introdotta dal v. 2. Si evita con questa ipotesi l’incongruenza di pretendere che invitati improvvisati e casuali dovessero avere l’abito adatto (l’usanza di fornire l’abito agli ospiti non è attestata per i tempi di Gesù); inoltre si usano vocaboli diversi per indicare i «servi» (douloi, vv. 3-10; diakonoi, v. 13). Le due parabole — dell’invito rifiutato e dell’abito nuziale — sarebbero poi state unificate nella figura complessiva del «re» che prepara le «nozze» del «figlio»: diventa chiaro sia il riferimento al giudizio finale e all’età della salvezza (il banchetto del regno), sia al compimento in Gesù (il Figlio).

I servi mandati a chiamare gli ospiti, specialmente per il secondo invito quando il banchetto è già pronto, sono per Matteo i discepoli che invitano nel nome di Gesù. Il rifiuto opposto dagli invitati è netto fin dal primo momento e senza scuse né motivi: «non volevano venire» (v. 3); solo in seguito si dice che, non essendo venuti, badavano ai propri affari.

I vv. 6-7 mostrano un crescendo che aggrava in maniera quasi incomprensibile l’accaduto, e che manca nella versione lucana: alcuni uccidono i servi, il re fa uccidere gli assassini e addirittura incendiare la loro città (al singolare!). Subito dopo (senza citare «il re») giudica indegni i primi invitati e manda i servi a cercare altra gente. Si pensa che i vv. 6-7 siano un’interpolazione successiva, che risente dell’eco degli eventi del 70 d.C. e indica la persecuzione dei messaggeri di Gesù e il giudizio di Dio su Gerusalemme. Furono probabilmente aggiunti dopo l’unificazione delle due parabole; vi si parla infatti di un re, mentre la parabola degli invitati non fa pensare a un re che invita altri capi di città, ma semplicemente a un uomo ricco che invita suoi pari (cf. il parallelo di Luca).

I servi escono infine a chiamare «cattivi e buoni» e la sala si riempie.

La parabola dell’abito nuziale (vv. 2.11-14) qui inserita è un monito alla comunità. Essa indica il rifiuto di Gesù da parte di Israele, e avverte la comunità di non fare la stessa cosa. «Invitare» è detto con il verbo kaleô, che significa «chiamare»: è Dio che chiama alla salvezza.

La parabola dell’abito mostra che i chiamati al banchetto del regno non possono restare come prima, ma assumono un nuovo modo di essere: il battezzato è un «uomo nuovo» (Col 3,10), «indossa Cristo» (Gal 3,27), come dice Paolo.

Il finale (v. 14) mette in guardia dalla falsa sicurezza di chi pensa di avere già in tasca la salvezza: «chi è chiamato da Dio non può mai considerare questa vocazione un ‘possesso’ acquisito, ma deve viverla giorno per giorno» (Eduard SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 391). Non si può così ridurre il significato della parabola a una sostituzione della predicazione a Israele con la predicazione ai pagani: l’evangelista vuole ricordare ai discepoli di Gesù che l’accettazione dell’invito e il battesimo devono continuare a caratterizzare tutta la vita del cristiano, perché possa restare seduto al banchetto.

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