XXIV Domenica T.O. ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE

XXIV Domenica T.O. Anno APrima lettura: Numeri 21,4b-9

      In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero».  Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo.  Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita. 

 La pericope giovannea ha fatto cenno al famoso episodio, verificatosi nel deserto e narrato in Nm 21. Non è un testo di facile comprensione, a causa di questa menzione dei serpenti e per il fatto che un serpente diventa poi il mezzo di salvezza dal morso velenoso. Seguendo il racconto, nel v. 4 si dice che gli ebrei partirono dal monte Cor e si diressero verso il Mar Rosso, per aggirare il paese di Edom: con questa traccia, possiamo dedurre che essi si trovassero nella regione settentrionale della penisola del Sinai, nella zona di Aqaba. Il popolo risentì della pesantezza del cammino, che fu all’origine della protesta riportata nel v. 5. In realtà, gli ebrei non erano nuovi al lamento e alla protesta, per cui Dio inviò dei serpenti velenosi (v. 6), che il testo ebraico chiama hannechashîm hasseraphîm, alla lettera «serpenti brucianti». In seguito al pentimento del popolo, Mosè s’interpose come intercessore (v. 7) tra esso e Dio, il quale ordinò al legislatore d’Israele il rimedio (vv. 8-9): neutralizzare i serpenti con l’immagine di un serpente.

La chiave del senso del racconto è certamente nel significato da dare alla figura del serpente, che poteva avere nell’antichità un valore apotropaico (di scongiuro del male), di culto dei serpenti (forse praticato anche nel tempio di Gerusalemme prima dell’esilio babilonese, cf. 2Re 18,4) o, persino, di divinazione (la radice della parola ebraica nachash, serpente, ha anche il senso di divinare). Un’interpretazione «spirituale» è quella che troviamo nel Libro della Sapienza: «Quando infatti li assalì il terribile furore delle bestie e perirono per i morsi di tortuosi serpenti, la tua collera non durò sino alla fine. Per correzione furono spaventati per breve tempo, avendo già avuto un pegno di salvezza a ricordare loro i decreti della tua legge. Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti. Anche con ciò convincesti i nostri nemici che tu sei colui che libera da ogni male […]. Invece contro i tuoi figli neppure i denti di serpenti velenosi prevalsero, perché intervenne la tua misericordia a guarirli. Perché ricordassero le tue parole, feriti dai morsi, erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio, fossero esclusi dai tuoi benefici» (16,5-8.10-11). 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11 

       Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio  l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

L’inno della lettera ai Filippesi è tra i più noti testi del Nuovo Testamento, e rappresenta un momento di alta comprensione del mistero di Cristo. Al centro dell’inno si trova la menzione della croce, la quale segna il passaggio alla glorificazione. Tuttavia, la croce non sarebbe stata possibile senza l’obbedienza del Figlio, che si manifesta, per così dire, per gradi. Infatti, il testo insiste molto sulla «provenienza» di Gesù, che scende dal cielo, ossia si distacca (prendiamo le parole nel loro senso «spaziale») dalla sfera trascendente e, pur conservando la sua personalità divina, assume la carne umana. Egli non ritenne, dunque, la propria uguaglianza con Dio un ostacolo alla sua incarnazione, la quale costituiva, comunque, un «impoverimento» per lui, ma un arricchimento per noi («Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà»; 2Cor 8,9). Gesù, poi, avendo spogliato se stesso per assumere la condizione umana, che l’apostolo chiama «servile», condusse fino alle estreme conseguenze la sua obbedienza, al punto da morire non con una morte qualsiasi, ma più infamante, ossia sulla croce.

Tale obbedienza, che sulla croce fa rifulgere il grande amore che il Figlio nutre per il Padre, viene da questi «ricompensata» con la glorificazione, l’esaltazione sopra tutti gli esseri celesti, terreni e sotterranei, sicché tutto e tutti devono piegare il ginocchio, sottomettersi, davanti al Cristo, che è testimone fedele della gloria rivelatrice e salvifica di Dio Padre. 

Vangelo: Giovanni 3,13-17 

        In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.  Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». 

 

Esegesi

Il testo evangelico di questa festa fa parte del dialogo svoltosi tra Gesù e Nicodemo. Quest’ultimo, al v. 9, chiede come sia possibile rinascere, così come dice il testo greco, anothen — avverbio che vuol dire «di nuovo» e «dall’alto» —, ricevendo da Gesù un rimprovero, perché non si vuole accogliere la sua testimonianza, che proviene da chi, quale unica persona vivente sulla terra, è disceso dal cielo. Bisogna ammettere che, per chiarire in maniera esaustiva il senso dei versetti del brano di questa festa, si rivela opportuno dare uno sguardo a quelli precedenti, a partire dal v. 11, dove Gesù sottolinea che il suo parlare deriva dall’aver veduto, azione per la quale diventa un testimone affidabile.

Purtroppo, la sua testimonianza non è accetta, al punto tale da non volerlo ascoltare nemmeno se parla di cose della terra. Il passaggio logico del v. 12, infatti, è importante: come può Gesù parlare di cose del cielo, dal momento che gli si nega credibilità se si riferisce alle cose della terra, che di quelle del cielo sono «segno»?

Dunque, il punto di partenza sta in questa sorta di parallelismo tra la terra e il cielo, che esprime la condiscendenza divina nella rivelazione: si parla delle cose della terra «per analogia» a quelle del cielo, affinché quest’ultime siano più chiare. Un ultimo particolare richiama la nostra attenzione: nel v. 11 Gesù usa il plurale «noi parliamo», contrapposto a un «ma voi non accogliete». Nel «noi» è da vedere Gesù che associa anche la comunità dei credenti alla sua testimonianza, rispetto al «voi» di coloro che rifiutano oltre alla sua rivelazione, anche la testimonianza dei credenti.

Tale rapporto prosegue nei vv. 13-15: da una parte c’è la terra, rappresentata dall’avvenimento del «salire al cielo» e da quanto Mosè fece nel deserto, quando innalzò il serpente; dall’altra il cielo, richiamato dal «discendere dal cielo» e dal Figlio dell’uomo che è innalzato. La sottigliezza del ragionamento giovanneo non ci deve sfuggire: Gesù allude ad un fatto non ancora avvenuto, ossia l’ascensione, come se già fosse stato realizzato, perché la comunità «post-pasquale» rilegga insieme all’evangelista l’insegnamento della sua vita pubblica alla luce del mistero di Pasqua, per cui nessuno, al di fuori del Figlio dell’uomo, può «ascendere» al cielo se non vi è disceso per incarnarsi; allo stesso modo, un fatto già avvenuto, Mosè che innalza il serpente nel deserto, ne richiama un altro, già presente alla mente dei credenti, ma non realizzato ancora da un Gesù durante la sua vita pubblica, ossia il Figlio dell’uomo innalzato. Benché la sua esperienza sia irripetibile e non confrontabile con alcun’altra, in tutto questo complesso di avvenimenti è coinvolto anche il popolo dei credenti, venuti dopo di lui ma anche prima di lui, come l’accenno a Mosè lascia presagire.

Se i vv. 13-14 hanno in estrema sintesi colto il nocciolo del rapporto tra terra e cielo, per cui Gesù, il Figlio dell’uomo, emerge ancora di più quale centro della creazione (Gv 1,3: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui») e della storia (il mistero pasquale), a maggior ragione questo si manifesta nel giudizio, che il v. 15 accenna: «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». La parola «giudizio», per la verità, fa parte di quei vocaboli che poco piace alla nostra mentalità moderna, ma quello che ci consola è che il Vangelo insiste primariamente sulla dimensione positiva, il dono della vita eterna, come frutto della salvezza. Perciò, l’evangelista riprende quella che potrebbe essere una formula kerigmatica molto efficace, dove si riassume il traboccante amore di Dio Padre per l’umanità, che si spinge al punto da «dare» il suo Figlio unigenito, per chiamare alla fede e alla salvezza gli uomini e, così, farli entrare nella pienezza della vita, quella eterna.

Anche se finora non abbiamo mai pronunciato la parola «croce», tuttavia essa fa da sfondo a tutto quanto è stato detto: che cosa prefigura il serpente innalzato su di un’asta da Mosè nel deserto? A che tipo di morte si riferisce Gesù quando pronuncia il verbo «innalzare» (Gv 12,32-33: «“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire»)?».

            Infine, che cosa vuol dire il verbo «dare» nel v. 16? A quest’ultimo proposito, non si può trascurare di ricordare come questa fugace quanto profonda allusione chiami in causa Gen 22, il celebre racconto della legatura (in ebraico, aqedah) d’Isacco, pronto per essere sacrificato dal padre Abramo. È al cospetto del Figlio dell’uomo innalzato sulla croce che ciascun essere umano viene posto davanti alla scelta di credere o non credere, di preferire la luce o la tenebra, di compiere le opere buone o quelle malvage. In definitiva, è di fronte al Figlio di Dio consegnato per noi che siamo invitati a optare per la vita o per la morte: in questo consiste il giudizio.

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