XXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XXI domenica T.O. anno A

Prima lettura: Isaia 22,19-23

      Così dice il Signore a Sebna, maggiordomo del palazzo: «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto. In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa; lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani. Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire. Lo conficcherò come un piolo in luogo solido e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre». 

 Il profeta è incaricato da Dio di annunciare a Sebna, sovrintendente del palazzo del re, vale a dire colui che ricopriva la carica più importante subito dopo il re, la sua rovina imminente. Si tratta di un funzionario presuntuoso, forse straniero, che vuole governare secondo i suoi disegni e non ascolta i consigli che il profeta porta a nome di Dio.

Il Signore annuncia un suo intervento diretto e designa il successore Eliakim, figlio di Chelkia (2Re 18,18).

Il nuovo funzionario designato dal Signore «Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda» (Is 22,21). Il capo in Israele, come il re, deve agire soltanto nell’imitazione di Dio. Come Dio è padre di Israele (cf. ad es. Is 4,22; Dt 1.31; Is 61,16; 64,7; Ger 31,9) così dovranno essere il re e i suoi ministri.

Dio è, per così dire, il solo legittimo governatore di Israele, gli uomini non sono che suoi ministri e devono rispondere a lui della loro condotta.

Il Signore stesso presiederà all’investitura del nuovo plenipotenziario del regno: dandogli i simboli del potere: la tunica, la sciarpa e soprattutto la chiave della casa di Davide. La stabilità del suo potere e il successo dipenderanno direttamente da Dio: «Lo conficcherò come un piolo in luogo solido e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre» (Is 22,23).

L’immagine del piolo ben conficcato fa venire in mente l’immagine di Gerusalemme «che non sarà più rimossa, i suoi paletti non saranno più divelti, nessuna delle sue cordicelle sarà più strappata» (Is 3,20).

La fedeltà è la qualità per eccellenza del Dio dell’alleanza, che, nonostante le minacce e i castighi, non viene meno alle sue promesse ad Israele e a Sion. Egli, come padre è fedele e misericordioso, castiga solo per correggere ed è paziente nei confronti del figlio che ha peccato. Il profeta lo ricorda continuamente e rammenta ad Israele e soprattutto ai suoi governanti che devono essere anch’essi fedeli e ancorati alla volontà divina.

I versetti del salmo responsoriale riprendono in forma di ringraziamento a Dio i concetti del brano profetico. Il salmista ringrazia Dio per la misericordia e la fedeltà (hesed e emet) (Sal 137,2) e riconosce la grandezza di Dio nel suo piegarsi sugli umili, i piccoli, coloro che non contano nulla. In Dio c’è il rovesciamento delle prospettive umane: «Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile, ma al superbo volge lo sguardo da lontano» (Sal 137,6).

Seconda lettura: Romani 11,33-36  

         O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!  Infatti,  chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio? Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen. 

Oggi la liturgia ci fa leggere la conclusione del capitolo 11 della lettera ai Romani, che corona la lunga riflessione sulla misericordia di Dio con delle esclamazioni piene di stupore, che formano un inno alla sapienza di Dio.

«O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio!» (Rm 11.33). Nel mistero della trascendenza divina solo lo Spirito penetra fino in fondo e solo lo Spirito può farcene intravedere qualche barlume: «quello che occhio non vide e orecchio non udì, quello che Dio preparò per coloro che lo amano. Dio lo rivelò appunto a noi per opera del suo Spirito. Lo Spirito infatti sonda ogni cosa, persino le profondità di Dio ora noi abbiamo ricevuto lo Spirito che viene da Dio, onde poter conoscere i doni che Dio ci ha elargito» (1Cor 2,9-12).

Attraverso il dono dello Spirito contempliamo la «ricchezza di Dio», che è secondo il pensiero delle lettere di Paolo l’abbondanza della grazia e della misericordia, ma dobbiamo ammettere con Isaia, l’assoluta trascendenza divina: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie — oracolo del Signore —. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,6-9).

Sempre dalle Scritture (che per Paolo sono quelle ebraiche, che noi chiamiamo Antico Testamento, le uniche esistenti e riconosciute come ispirate ai tempi di Paolo) l’apostolo attinge le domande, che rafforzano il concetto di «profondità» inaccessibile della sapienza divina: «Infatti,  chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?» (Rm 11,34-35). Dice Isaia (40,13) «Chi ha diretto lo Spirito del Signore e come suo consigliere gli ha dato suggerimenti?». In Geremia (23,18) leggiamo: «Ma chi ha assistito al consiglio del Signore?»; in 1Cor 2,16 Paolo riprende lo stesso concetto: «Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?».

La conclusione è la professione di fede: «Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen» (Rm 11,36). 

Vangelo: Matteo 16,13-20 

          In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».  Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».  E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo. 

 Esegesi

La scena è ambientata a Cesarea di Filippo, dove è situata una delle sorgenti del Giordano, il fiume teatro di grandi avvenimenti della vita di Gesù. Nel Giordano aveva ricevuto il battesimo e una voce dal cielo lo aveva proclamato «Figlio diletto» (Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22). Ora Gesù invece che una voce dal cielo chiede una voce terrena; ma la rivelazione della sua identità proclamata da Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16;) sarà ancora in un certo senso dal cielo, perché ispirata direttamene dal Padre: «né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli» (Mt 16,17).

La domanda di Gesù sulla sua identità e la confessione di fede di Pietro in Mt 16,13-16 trova corrispondenza in Mc 8,27-30 e in Lc 9.18-21; Giovanni in un altro contesto riferisce una confessione di Pietro simile (Gv 6,69), ma la promessa a Pietro è originale di Matteo (Mt 16,17-20).

Gesù nell’interpretazione popolare è considerato un «profeta», dotato di qualità e poteri taumaturgici sul modello dei profeti taumaturghi biblici, in particolare la figura molto popolare nella tradizione ebraica del profeta Elia, che sarà colui che precederà il Messia. Il parallelo con Elia è facilitato dal legame di Gesù con Giovanni Battista, visto a livello popolare come il profeta riformatore: «Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché intanto il suo nome era diventato famoso. Si diceva: “Giovanni il Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui”. Altri invece dicevano: “È Elia”, altri dicevano ancora: “È un profeta come uno dei profeti”. Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: “quel Giovanni che ho fatto decapitare è risuscitato”» (Mc 6,14-16; cf. Mt 14, Is; Lc 9,7-9).

La confessione di Pietro è riportata in maniera differente dai tre evangelisti sinottici: Mc 8,29: «Tu sei il Cristo». Lc 9,20: «Tu sei il Cristo di Dio». Mt 16,16: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

C’è un approfondimento fra Marco, dove Pietro proclama solo la messianicità di Gesù (xristòs in greco corrisponde al termine ebraico per indicare il messia). Luca, che specifica l’appartenenza del Messia a Dio e Matteo che confessa non solo la messianicità, ma anche la figliolanza divina di Gesù.

Dopo la risposta di Pietro comincia nel vangelo di Matteo la parte sua propria.

Udita la risposta. Gesù indica Simone come fondamento della sua chiesa: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,17-18).

«L’investitura di Simon Pietro è suggellata dal cambio di nome, proprio come avvenne in antico quando l’alleanza con il padre dei credenti (cf. Rm 3,1,1; Gal 3,9) fu suggellata dal Signore con un duplice cambio di nome; cosicché Abram si mutò in Abramo (Gn 17,5) e Sarai si mutò in Sara (Gn 17,15) divenendo in tal modo roccia (sur) da cui furono tagliati tutti i figli d’Israele (Is 51,1-2). Qui, a Cesarea di Filippo, il cambio di nome (e Gesù impone a Simone un nome fino ad allora non impiegato per persona) è ricco di sfumature, addirittura d’ambiguità, imputabili alla significativa incapacità del testo greco di rendere adeguatamente l’aramaico kefa’ (roccia). Il passo evangelico pensato in aramaico suonerebbe così: “Tu sei Kefa’ e su questa kefa’ edificherò la mia chiesa”. Nel testo greco si legge però: “Tu sei Petros e su questa petra edificherò la mia chiesa”. Ora petros (sasso, pietra distaccata) è termine che si contrappone proprio a petra (roccia). Secondo queste parole Pietro è così, nel contempo, «sasso» e «roccia».

Nei termini di quest’investitura si esprime una duplice debolezza, sospesa tra la possibilità di essere pietra su cui si secca la parola di Dio (cf. Mt 13,5.20; Mc 4,16; gr. petrodēs) e roccia (petra) su cui può venir saldamente edificata la casa di chi ascolta la parola mettendola in pratica (cf. Mt 7,24-25; Lc 6,48). Se le porte degli inferi non prevarranno sulla

chiesa (cf. Mt 16,18) ciò può avvenire solo perché la potenza di Dio si esprime nella debolezza (cf. 2Cor 12,9); si manifesta cioè anche attraverso una pietra capace di rinnegare il proprio edificatore (cf. Mt 26,69-75; Mc 14,66-72; Lc 22,54-62), in quanto continua a pensare come gli uomini (cioè secondo la carne e il sangue) non secondo Dio (Mt 16,23). ‘Tu Pietro sei roccia incapace di sostenere la morte del messia (cf. Mt 16,21-22)” (alla morte di Gesù non si spaccarono forse anche le rocce? Mt 27,51), “ma ciononostante io resto, attraverso di te, l’edificatore della mia chiesa”» (cf. Lc 22,31-32).

«Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme… venir ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Mt 16,21). Queste parole, fondamento di ogni debolezza chiamata a rovesciarsi in potenza, sono poste subito dopo l’investitura di Pietro, tuttavia in realtà ne costituiscono l’insostituibile presupposto. Il farsi rappresentare da altri si giustifica, infatti, solo di fronte alla morte. In virtù di ciò l’investitura di Pietro da parte di Gesù richiama fortemente quella di Giosuè ad opera di Mosè. Simone figlio di Giona chiamato da Gesù Pietro, Osea figlio di Nun chiamato da Mosè Giosuè («Il Signore è salvezza») (Nm 13,26), furono infatti investiti della rappresentanza quando ai loro maestri si aprì la prospettiva di dover morire.

Di fronte alla morte — afferma il Midrash — è proprio degli uomini pii pensare non a se stessi, bensì alle necessità della comunità (il qahal — assemblea — d’Israele e l’ekklèsia di Gesù): «cosicché quando Dio disse a Mosè che egli doveva morire (Nm 27,12-14), la sua immediata preoccupazione fu che Dio stabilisse un capo al suo posto». Lo chiese perché, dopo la sua morte, il popolo non fosse come un gregge senza pastore (Nm 27,15-17; cf. Gv 21.15-17). Allora il Signore indica a Mosè Giosuè figlio di Nun, legato a lui da un vincolo di servizio, non di parentela (anche Pietro, del resto, non era parente di Gesù).

Giosuè condusse Israele oltre il Giordano (Gs 3 e 4) (il fiume presso le cui sorgenti Pietro sta ora proclamando la messianicità di Gesù), cioè là dove Mosè, a causa di una misteriosa colpa commessa alle acque di Meriba (Nm 20,12; 27,14; Dt 8-52), non riuscì a condurlo. Secondo il libro dell’Esodo all’acque di Massa e Meriba il Signore disse a Mosè: «Ecco io sto davanti a te sulla roccia, sull’Horeb: colpirai la roccia e ne uscirà acqua. Il popolo ne berrà» (Es 17,6; cf. Nm 20,1-13). Il Targum Onqelos (la più letterale parafrasi aramaica della Scrittura) rende qui il termine «roccia» (sur) proprio con kefa’. In questa roccia vi è forza e debolezza. Vi è la forza di acque miracolosamente scaturite in pieno deserto (infatti è come se quella roccia fosse stata percossa dal Signore stesso, cf. Sam 78,20) e vi è la debolezza della colpa che si insinua anche dell’animo più giusto (cf. Qo 7,20).

Paolo identifica con Cristo la roccia che nel deserto fornisce acqua al popolo (1Cor 10,4). Quella roccia vista in questo modo diviene così quasi un segno che anche «Cristo il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16) per edificare la propria Chiesa dovrà passare attraverso la debolezza e la forza. Nel deserto del Sinai il popolo riunito divenne assemblea (ebr. qahal; gr. LXX ekklēsia) di Dio (Dt 4,10;9.10; At 7,38). Ora vi è un altro popolo chiamato a diventare chiesa di Dio attraverso una via diversa e dura, tale da sconcertare tanto Simone (Mt 16,22) quanto lo stesso Gesù (cf. Mt 26,37.42; 27,46). (PIERO STEFANI, Sia santificato il tuo nome. Commenti ai Vangeli della domenica. Anno A, Genova, Marietti, 1986, 173-176).

Gesù promette a Pietro «le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16,19). In ebraico il termine «chiave» (mafatab, cf. Gdc 3,25; 1 Cr 9,27; Is 22,22) è singolarmente più legato all’idea di aprire (radice ptb) che a quella di chiudere. Nel Nuovo Testamento le chiavi (gr. Kleida) indicano però piuttosto l’atto di chiudere che quello di aprire. La definitiva vittoria non è

legata al possesso delle chiavi del regno dei cieli date a Pietro (Mt 16,19). Queste ultime, al pari di quelle della scienza possedute dai dottori della legge (Lc 11,52) tendono infatti a indicare una delimitazione o addirittura un’esclusione (cf. Mt 18.17-18), non un’apertura universale. La Gerusalemme celeste discesa dal cielo avrà mura e porte, ma, come non avrà tempio, così non avrà neppure chiavi, le sue porte infatti non si chiuderanno mai (Ap 21,9-27; Is 60,11). La vittoria definitiva è contrassegnata dal possesso di altre chiavi: quelle dell’abisso e della morte, destinati alla fine a venir rinchiusi per sempre nella loro tenebrosa oscurità. Quelle chiavi sono però, prezioso possesso solo di chi, a propria volta, è passato attraverso la morte: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo (cf. Is 44,6), il

Vivente; giacqui morto, ma ora eccomi vivo per i secoli dei secoli; nelle mie mani sono le chiavi della morte e dell’ade» (Ap 1,18; cf. Ap 3,7- Is 22,22- Ap 9,l; 20,1) (Ivi, 176).

amministratore

Questa è la descrizione dell'Amministratore del sito.

Potrebbero interessarti anche...