XII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XII Domenica T.O. Anno C

Prima lettura: Zaccaria 12,10-11;13,1

    Così dice il Signore: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo. In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».     

 Chi abbia potuto suggerire a Pietro di rispondere in modo esatto, benché non del tutto consapevolmente, se non lo Spirito? Nel passo parallelo di Mt 16,17 Gesù afferma che Pietro ha parlato perché ispirato: «E Gesù: ‘Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli’».

Lo Spirito fa recuperare all’uomo quelle disposizioni, grazia e consolazione, essenziali per mettersi in comunicazione con Dio. Inoltre, lo Spirito, aprendo gli occhi all’uomo, gli fa incontrare un Dio che si interessa a tal punto di lui da sentirsi trafitto, e lo induce così a trovare consolazione nel pianto della preghiera e dell’implorazione. Ma quando abbiamo visto Dio trafitto se non volgendo il nostro sguardo a Cristo crocifisso, figlio unico e primogenito di Dio morto per noi? Parlando delle Scritture adempiute da Gesù, il vangelo di Giovanni riprende proprio questo concetto: «E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (19,37). Luca inoltre ci descrive le donne che piangevano mentre Gesù si portava al luogo della sua crocifissione: «Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui» (23,27).

Eppure, le cose non possono terminare con la morte: il riferimento ad Adad-Rimmon lo sottintende. Come nella pianura di Meghiddo i Cananei celebravano la morte di Baal (chiamato anche Adad-Rimmon) con il pianto e ne proclamavano la «rinascita», perché ricominciava con la primavera il cielo della natura, così il pianto effettuato a Gerusalemme

preluderà alla risurrezione del Messia, primavera di un’epoca nuova. 

Seconda lettura: Galati 3,26-29 

       Fratelli, tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.

Ma che cosa è in grado di produrre la fede? Soltanto il riconoscimento di Gesù in quanto Figlio di Dio e Messia? Quale impatto si verifica? San Paolo, nel piccolo brano che leggiamo in questa domenica, ci illustra in sintesi il grande mistero al quale apparteniamo.

La prima affermazione riguarda la fede che ci rende figli di Dio, «poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (3,27). Infatti, come esseri umani, abbiamo addosso un vestito disadatto a presentarci al cospetto del Padre buono e misericordioso. Quanto sia importante il vestito nel linguaggio biblico lo si desume dal fatto che esso viene considerato espressione dell’identità della persona. Nella parabola del banchetto nuziale «il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: ‘Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale’» (Mt 22,11-12). D’altronde, Paolo invita i cristiani a rivestirsi di Cristo, perché ciò vuol dire rinnovamento della vita: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13,14).

Una volta che ci siamo rivestiti di Cristo e apparteniamo a lui, non possono più sussistere quelle barriere che dividono l’umanità, rendendola infelice e nemica di se stessa. Avere tutti il medesimo «vestito», perciò, spinge l’umanità a riscoprirsi una nel nome di colui che l’ha salvata: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1Cor 12,13). Il battesimo si fa dunque strumento di questo processo di unità e di pace, perché si parte tutti dallo stesso punto: l’essere figli di un unico Padre. Infatti, «beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

Infine, san Paolo collega l’appartenenza a Cristo con l’essere discendenza di Abramo e, quindi, eredi secondo la promessa fatta da Dio a lui. Gli Ebrei erano giustamente fieri di essere discendenza di Abramo: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno» (Gv 8,33). In verità, ad Abramo era stato promesso di diventare padre di una moltitudine di popoli: «Eccomi: la mia alleanza è con tè e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re» (Gn 17,4-6). A lui, come ci riferisce, ad esempio, Gn 15, fu detto che i suoi discendenti avrebbero avuto in eredità un paese, la terra d’Israele, immagine di quel regno che Dio instaurerà. In conclusione, con parole che lo stesso san Paolo usa in un altro contesto, «se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17). 

Vangelo: Luca 9,18-24 

       Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 

Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio».
Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».
              

 Esegesi

Durante la sua vita pubblica, Gesù ha sempre cercato di riservarsi dei momenti che non consistessero di solo puro riposo, bensì anche di preghiera o di dialogo con i propri discepoli. Già in questo stesso capitolo Luca ci narra che, al ritorno degli apostoli dalla missione, Gesù li invitò a ritirarsi con lui in disparte. Ma la folla glielo impedì, «costringendo» proprio lui a predicare e a guarire (9,10-11) e, infine, a moltiplicare i pani e i pesci (9,12-17). Questa volta, invece, sembra finalmente che ci sia riuscito, perché il versetto 18 ci informa che egli si trovava solo a pregare e i discepoli gli erano accanto. Ad ogni modo, l’evangelista Luca ci fa notare spesso che Gesù era solito pregare, specialmente nei momenti fondamentali della sua missione: ad esempio, nel giorno del battesimo, egli riceve lo Spirito mentre si trova in preghiera (3,21), oppure alla fine di impegnative fatiche apostoliche (5,16).

Il Maestro è però anche conscio che un numero sempre maggiore di persone si interrogano sulla sua identità. Giovanni il Battista mandò addirittura i suoi discepoli a chiedere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (7,20); dopo che la peccatrice fu perdonata in casa di Simone il fariseo, i commensali si domandarono: «Chi è costui che perdona anche i peccati?» (7,49). Persino Erode il tetrarca «sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risuscitato dai morti», altri: «È apparso Elia», e altri ancora: «È risorto uno degli antichi profeti». Ma Erode diceva: «Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose?». E cercava di vederlo» (9,7-9). Erode davvero vide Gesù, ma in una circostanza nella quale non potette ascoltare nessuna sua parola (23,6-12).

Se altrove molti si erano chiesti chi fosse Gesù, ora è egli stesso che vuole sapere che cosa gli altri pensino di lui. Il «sondaggio» d’opinione viene eseguito interrogando i discepoli, che si dimostrano ben informati, ripetendo quello che era stato detto al tetrarca Erode: «Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto» (9,19). Il parametro è chiaro: per il suo modo di comportarsi e di parlare, Gesù assomiglia tanto a quei profeti che, nell’Antico Testamento, erano stati protagonisti di buona parte della vita religiosa, e non solo, d’Israele. Gesù non può meravigliarsi del fatto che lo si paragoni a un profeta. Nella sinagoga di Nazaret, leggendo Is 61,12, egli dice che è stato consacrato come profeta e spiega il rifiuto dei suoi concittadini verso di lui con esempi tratti dalla vita di Elia ed Eliseo (4,16-27); dopo aver risuscitato il figlio della vedova di Nain, «tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: ‘Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo’» (7,16). In chiave polemica, lo afferma pure il fariseo Simone: «A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: ‘Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice’» (7,39).

Ma poi Gesù diventa curioso di sapere che cosa pensano i suoi discepoli, coloro che l’hanno seguito in giro per la Galilea assistendo a cose straordinarie compiute da lui. Pietro rispose per tutti: «Il Cristo di Dio» (9,20). Finora, nella sua vita pubblica, Gesù era stato chiamato «Cristo» soltanto da esseri non appartenenti al mondo umano, come gli angeli, che in 2,11 ne annunziarono ai pastori la nascita, e come i demoni, che lo riconoscono quale Cristo in 4,41. Ma nessun uomo lo aveva mai chiamato e riconosciuto come tale fin quando Pietro non dichiarò questa sua fede. L’espressione, usata nell’Antico Testamento per indicare il re (cf. 1Sam 24,7.11; 26,9.16.23) o una persona scelta da Dio per svolgere una

missione speciale (Is 45.1), esprime una visione di messia ancora parziale e soltanto legato al momento della gloria umanamente intesa, perciò Gesù sente il bisogno di impedire ai discepoli di affermare ciò in pubblico (la gente, ma neanche i discepoli, non era pronta per una rivelazione del genere), aggiungendovi l’annuncio della passione, morte e risurrezione, unitamente con le severe condizioni per la sequela. Annunciare il Cristo non significa annunciare con le sole parole una dottrina, bensì impegnare la propria psychè (vita) al punto da essere disposti a perderla, come la perse Gesù stesso, per ritrovarla poi nella risurrezione.

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