VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

VI Domenica T.O. Anno B

Prima lettura: Levitico 13,1-2.45-46

     Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.

     Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.  Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento». 

 I capitoli 11-15 del libro del Levitico, di cui fa parte questo brano sono chiamati dagli esegeti «codice di purità» (in parallelismo con i capitoli 17-26, chiamati «codice di santità»). Il nome è giustificato dal fatto che, in questa sezione, vengono elencate le realtà che avvicinavano a Dio (tutte racchiuse nel nome generico di «puro») e quelle che a Dio si oppongono o da Dio allontanano (come le malattie e la morte, ma anche fenomeni come il parto o fenomeni legati al ciclo della femminilità ecc.: queste vengono racchiuse nel nome generico di «impuro»). Anche la lebbra rientra in queste realtà negative, anzi vi entra in modo esemplare perché il termine ebraico che la definisce — negàh, «colpire» — è diventato sinonimo della «piaga» per eccellenza che allontana da Dio e mediante la quale Dio

Bisogna, tuttavia, notare che presso l’antico Israele il concetto di lebbra era molto più ampio del nostro. Infatti, ogni malattia della pelle («arrossamento, pustola, macchia bianca») — e le stesse muffe dei muri delle case — venivano considerate come lebbra. Inoltre questa malattia conduceva a una totale esclusione dalla comunità. Questo spiega il particolare modo di vestire («vesti strappate, capo scoperto, coprirsi la barba») e l’obbligo di abitare fuori dall’accampamento o dall’abitato e di segnalare la propria presenza, per evitare di contagiare gli altri (il lebbroso deve gridare: «Impuro! Impuro!»). 

Seconda lettura: 1Corinzi  10,31-11,1 

      Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.  Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.    

Il breve brano proposto contiene la conclusione della trattazione di alcuni problemi che assillavano la comunità cristiana di Corinto. Vivendo in ambiente pagano e idolatra, più in particolare i problemi riguardavano la partecipazione ai sacrifici pagani e all’eucaristia e il mangiare le carni offerte in sacrificio agli idoli (chiamate con termine greco «idolotìti» dal verbo thyo, «sacrificare»). Queste carni venivano distribuite e offerte come cibo nel banchetto che seguiva al sacrificio, ma venivano anche vendute nei mercati.

Paolo dà questo consiglio: se il cristiano viene invitato a un banchetto e non e al corrente della provenienza delle carni che gli vengono offerte in cibo, ne può mangiare (al riguardo Paolo cita, come giustificazione il Salmo 24,1: «Del Signore è la terra e tutto ciò che contiene»). Se invece il cristiano sa che le carni provengono dai sacrifici offerti dai pagani agli idoli, se ne deve astenere. Ciò viene motivato dal fatto che si potrebbe dare occasione di scandalo a chi è ancora «debole» nella fede («Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio»).

L’astensione dall’assumere queste carni è motivo per il cristiano di testimoniare apertamente la fede nell’unico vero Dio e di esprimere la sua opposizione al culto degli idoli, assai fiorente nella città di Corinto. Su tutto, però, deve prevalere il principio della ricerca di Dio e della sua gloria e non il proprio tornaconto: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». La vita, l’opera e il comportamento di Paolo stesso sono il modello di questa ricerca di Dio su tutto: «Così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo». 

Vangelo: Marco 1,40-45 

      In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.  E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».

Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.     

 Esegesi 

Lo sfondo del brano evangelico è quello della prima lettura, dedicata alla descrizione del significato negativo della lebbra all’interno della comunità israelitica e alle precauzioni da assumere nei suoi confronti. Ma lo sfondo è anche quello «teologico» del vangelo di Marco, nel quale i miracoli di Gesù vengono presentati con lo scopo di condurre i suoi contemporanei a riconoscere in lui il Figlio di Dio. Quanto allo sfondo biblico, è interessante notare come ancora ai tempi di Gesù fossero in vigore le norme del libro del Levitico, che per i lebbrosi contemplavano l’emarginazione, l’esclusione dalla comunità, un vestito e un comportamento particolari (vedi la prima lettura), cioè la morte civile e religiosa. Il leb-broso del vangelo infrange queste norme «andando» da Gesù, quindi rompendo l’isolamento. E Gesù stesso infrange queste norme, quando «tocca» il lebbroso. Toccare chi era colpito dalla lebbra, significava infatti essere dichiarato immondo, con conseguenze gravi per la vita religiosa.

«Se vuoi, puoi purificarmi!»: il lebbroso ha la percezione che solo Gesù, con i poteri e l’autorità che sta dimostrando attraverso i miracoli, ha la capacità di guarirlo dalla lebbra. Nessun altro può restituirlo alla vita civile e quotidiana, perché la legge è rigorosissima. Questa percezione diventa fede quando, nel suo significato più profondo, la lebbra è vista come immagine del peccato, che emargina l’uomo da Dio e dalla comunità di fede. Solo Gesù ha la capacità di salvare. I verbi di miracolo («guarire, sanare») nei vangeli diventano perciò i verbi della fede («salvare, convertire a Dio»).

«Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò»: con questi verbi appare in pienezza l’umanità di Gesù, che si ribella allo stato di emarginazione in cui venivano relegati i lebbrosi. È, questo, un progresso nel riconoscimento della dignità dell’uomo che versa nella malattia, un progresso che solo il vangelo può favorire e ancora oggi propone di fronte alle più svariate emarginazioni a cui viene condannato l’uomo debole, indifeso, ammalato.

«Ammonendolo severamente»: Gesù ha la consapevolezza di aver trasgredito la legislazione del Levitico e per questo si dimostra severo con il destinatario del miracolo di guarigione. Ma ha pure la consapevolezza di aver ridato vita, gioia, felicità, comunità, casa, famiglia, affetti, a chi ingiustamente veniva emarginato. Gli esegeti — in riferimento anche a quanto è detto nel v. 14 («Guarda di non dire niente a nessuno») — vedono qui un’allusione al cosiddetto «segreto messianico». Gesù cioè non vuole essere riconosciuto Messia attraverso i gesti miracolosi che compie, ma soprattutto nell’umiliazione della croce.

«Va’, invece, a mostrarti al sacerdote»: secondo le norme del Levitico (capitoli 13-14) erano i sacerdoti a stabilire la presenza della lebbra, a ratificare le norme da applicare nei confronti del lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione. Forse Gesù vuole anche far capire ai sacerdoti che la legislazione del Levitico ha ormai esaurito la propria funzione ed è tempo di chinarsi con più amore e compassione su chi soffre ed è emarginato.

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