II Domenica dopo Natale 4 Gennaio 2015

in principio era il verbo

Siracide 24,1-4.12-16

La sapienza fa il proprio elogio,
in Dio trova il proprio vanto,
in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria.
Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca,
dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria,
in mezzo al suo popolo viene esaltata,
nella santa assemblea viene ammirata,
nella moltitudine degli eletti trova la sua lode
e tra i benedetti è benedetta, mentre dice:
«Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine,
colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda
e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe
e prendi eredità in Israele,
affonda le tue radici tra i miei eletti” .
Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato,
per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato
e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare
e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore è la mia eredità,
nell’assemblea dei santi ho preso dimora».

«La sapienza fa il proprio elogio…». La prima lettura è ripresa dal libro del Siracide, uno scrittore ebreo che scrive nel 2° secolo a. C., e contiene l’elogio che la «sapienza» fa di se stessa. Siamo perciò davanti a una solenne «personificazione» di quello che può considerarsi un particolare agire di Dio sia nella creazione, sia nella storia di Israele che egli ha scelto come popolo «peculiare», addirittura come «sua porzione», «sua eredità» (Sir 24,8.12).

E in realtà nel mondo creato non possiamo non ammirare l’ordine, l’armonia, la bellezza, la «sapienza» appunto con cui tutto è stato disposto (24,3-4). Per l’autore sacro, però, è soprattutto il «patto» di particolare predilezione che Dio ha stabilito con Israele, e si esprime nel culto verace che si svolge nel tempio di Gerusalemme e nella «legge» che egli ha dato al suo popolo, che dimostra la «sapienza» sovrana ed amorosa del Signore: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine / colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda / e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe / e prendi eredità in Israele…: Nella città che egli ama mi ha fatto abitare / in Gerusalemme è il mio potere» (24,8.10).

La «sapienza» di Dio, dunque, sta all’origine della «creazione» dell’universo ma anche all’origine e lungo la storia d’Israele che, come i cristiani sanno, si prolunga nella realtà della Chiesa. E questo è un enorme messaggio di fiducia e di speranza: nonostante la perenne «stoltezza» degli uomini, sempre tentati di alterare il «progetto» di Dio nel mondo creato e nella storia, sappiamo che una mirabile «sapienza», «uscita dalla bocca dell’Altissimo» (24,3), ci guida e ci protegge con forza ed amorevolezza estrema.

D’altra parte, è chiaro che nell’interpretazione cristiana, già presente negli scritti del Nuovo Testamento, oltre che nella tradizione successiva, questa maestosa «personificazione» della «sapienza» non è solo una immagine «letteraria», ma è diventata realizzazione concreta, in una «persona» concreta che è Gesù Cristo, nostro Signore. In lui, perciò, l’immagine o il simbolo, sono superati dalla realtà!

Efesini 1,3-6.15-18

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.

Da sempre Dio «In lui ci ha scelti». Se il testo dell’Antico Testamento, preso in esame, già ci presenta una specie di «anticipazione» del Cristo venturo, S. Paolo nel meraviglioso «prologo» della lettera agli Efesini ci parla di un «progetto», riguardante Cristo, che è presente alla mente di Dio da «prima della creazione del mondo». È un brano densissimo di teologia, su cui potremmo dire tante cose, ma ci limiteremo a dirne due solamente.

La prima è che Dio tanto ci ama che già «prima della creazione del mondo […] ci hapredestinati a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,4-5). Dunque da sempre Dio ci pensa e ci vede in Cristo, progetto e fine ultimo della salvezza, e ci fa partecipare alla sua «figliolanza» divina. La seconda cosa è che, davanti a così grande mistero di donazione e di benevolenza, l’Apostolo prega Iddio perché dia ai suoi cristiani «spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui», di modo che possano comprendere «a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (1,17-18).

Davanti al mistero dell’Incarnazione, al credente non rimane altro che lo «stupore» adorante e lo sforzo di immergervisi sempre di più, con il cuore e con la mente, per afferrarne almeno qualche frammento di «luce» (cf. Gv 1,9). Una «luce», però che traspaia anche nella nostra vita, in modo da essere anche noi un prolungamento del mistero della Incarnazione.

Giovanni 1,1-18

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

 

Esegesi

«E il Verbo si fece carne»

Nella Liturgia di questa seconda Domenica dopo Natale è ovvio che è ancora lo «stupore» del mistero della nascita del Signore che ci trasmettono i testi biblici, offerti alla nostra considerazione.

Tale stupore è come riassunto nel responsorio, ripreso dal Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Vi si affermano due realtà, egualmente stupefacenti perché sembrano contraddittorie fra di loro: la prima è che il «Verbo», cioè il Figlio stesso di Dio, «sua perfetta immagine e somiglianza» (cf. 2Cor 4,4; Col 1,15), si è «fatto carne», cioè debolezza umana, fragilità, essere deperibile e mortale; la seconda è che, proprio per questo suo farsi uomo, egli ha voluto prendere «dimora», cioè domicilio, in mezzo agli uomini, per dimostrare loro che Dio conosce dall’interno i loro problemi, le loro sofferenze, le loro aspirazioni di bene e anche i fermenti di male e le paure che lacerano i loro cuori.

Tutto questo ci viene detto meravigliosamente nel «prologo» del Vangelo di Giovanni, su cui vorremmo fare delle rapide riflessioni.

Importantissimi, al riguardo, sono i primi versetti, che ci rimandano al «principio» dell’esistere stesso della Persona del Cristo, che si perde nell’eternità di Dio: «In principio era il Verbo / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio / Egli era, in principio, presso Dio: / tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (1,1-3).

La prima cosa che colpisce è l’esistere da sempre del Verbo «presso Dio», cioè presso il Padre, non come attributo della potenza del Padre ma come «persona» distinta, eterna come lui, potente come lui, tanto che è lui stesso creatore dell’universo: «senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (v. 3), dice il testo.

Egli è detto «verbo», cioè «parola», perché di fatto è per mezzo della «parola» che Dio realizza la creazione secondo il racconto della Genesi: «E Dio disse: Sia fatta la luce…» (1,3 etc). Ed è «parola» soprattutto perché lui soltanto «ci ha rivelato» il volto del Padre (v. 18).

Il Verbo «ha posto la sua tenda in mezzo a noi».

Tutto questo sta a significare la grandiosità e l’immensità di questo essere trascendente che, nel mistero dell’Incarnazione, si farà, nascerà come figlio di Maria, del «seme» stesso di Adamo che lui aveva creato. Un paradosso, questo, secondo la misura della nostra intelligenza, addirittura impossibile!

Eppure, di fatto, questo è avvenuto. È quanto Giovanni proclama al verso conclusivo o, meglio, culminante del prologo: «E il Verbo si fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi» (v. 14). Il Verbo che è stato tradotto con «abitare», di per sé dovrebbe essere tradotto più esattamente: «ha posto la sua tenda (eskènosen in greco) in mezzo a noi». Il rimando alla «tenda» dice, certo, il rimando all’«abitare», ma un abitare provvisorio, incerto: un «abitare», esposto ai rischi, alla limitazione, come di fatto è stata la vita di Gesù, a incominciare dalla sua nascita: si pensi semplicemente alla strage degli Innocenti, che abbiamo ricordato in questi giorni, alla fuga in Egitto e al suo ritorno in patria, per rimanere soltanto nello sfondo della Liturgia natalizia.

«E noi abbiamo contemplato la sua gloria»

Però rimane anche vero che, nel «farsi carne», del Figlio stesso di Dio si è rivelata la sua «gloria», come afferma di seguito S. Giovanni: « E noi abbiamo contemplato la sua gloria / gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre / pieno di grazia e di verità» (v. 14).

Più di un esegeta pensa che qui si tratti della «gloria» che Gesù si conquisterà più tardi con i suoi miracoli, «segni» appunto della sua potenza, come li chiama appunto Giovanni. Crediamo, invece, che la «gloria» di cui qui si parla sia esattamente quella legata proprio alla sua discesa dall’alto, alla sua «incarnazione», cioè il suo farsi «carne»: termine che in ebraico (basar) è equivalente di «uomo», nella sua accezione però di essere fragile, debole, destinato alla morte. E questo perché? Perché proprio nell’umiliazione a cui si è sottoposto il Verbo, creatore e signore dell’universo, si è manifestato al massimo l’amore di Dio per gli uomini, la sua «filantropia», come si dice appunto nella Bibbia (cf. Tt 3,4).

«Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto»

E questo amore di Dio per gli uomini si prolunga nella possibilità concreta, che mediante l’Incarnazione abbiamo ricevuto, di diventare «partecipi» della sua natura divina: nel suo abbassarsi all’umano, infatti, egli ci porta ogni «pienezza» di grazia e di verità (v. 14). È quanto Giovanni dirà anche più chiaramente verso la fine del prologo: «Dalla sua pienezza / noi tutti abbiamo ricevuto: /  grazia su grazia. / Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, / la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (vv. 16-17).
Tramite Mosè Dio ci ha dato la «legge», espressione della sua volontà; tramite l’Incarnazione egli dona se stesso nel suo Figlio, realizzando così in maniera radicale la sua promessa di fedeltà e di salvezza per il suo popolo (cf. Es 34,6).

Nell’Incarnazione Dio si è ormai come incatenato all’uomo! Tocca ora a lui saperlo «accogliere» nella propria vita, aprendola alle esigenze del Vangelo. Perché proprio di fronte a Cristo si scatenerà sempre il dramma della «contraddizione», il dramma che, in fin dei conti, sottostà a tutta l’intelaiatura del Vangelo di Giovanni: e cioè la perenne lotta tra la «luce», che è Cristo, e le «tenebre» che tenteranno sempre di sopraffarlo: «La luce splende nelle tenebre / e le tenebre non l’hanno vinta» (1,5).

È importante sapere che intorno a noi, e dentro di noi, c’è un mondo «tenebroso» che può oscurarci il volto di Cristo, farci allontanare da lui, magari perché può apparirci, in certi momenti, anche troppo esigente.

«Ha dato il potere di diventare figli di Dio»

Se però lo sappiamo accogliere e lo faremo entrare nella nostra vita, egli ci rinnoverà dal di dentro, ci farà suoi amici, addirittura ci parteciperà la sua stessa vita, facendo diventare anche noi «figli di Dio», a somiglianza sua. È quanto ci dice ancora il prologo di Giovanni quando, in contrapposizione a coloro che non l’hanno accolto, aggiunge: «A quanti però lo hanno accolto / ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, / i quali, non da sangue né da volere di carne / né da volere di uomo, / ma da Dio sono stati generati» (1,12-13).

Le ultime espressioni vogliono far capire al lettore che la nostra «figliolanza» divina, acquistataci da Cristo, non è qualcosa di paragonabile alla generazione «fisica», ma ha radici esclusivamente «spirituali», connesse con la nostra capacità di «credere»e di abbandonarci al «mistero» dell’amore di Dio, rivelateci nel dono che egli ci ha fatto del suo stesso Figlio.

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