don Bosco – Il Santo dei giovani

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416369_251406528272054_1405168602_oGiovanni Bosco nacque il 16 agosto 1815 ai Becchi, frazione di Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco). La sua fu una famiglia di poveri contadini. Rimase orfano del papà, Francesco, a soli due anni.

Sua madre, Margherita, lo tirò su con tenerezza ed energia. Gli insegnò a lavorare la terra e a vedere Dio dietro la bellezza del cielo, l’abbondanza del raccolto, il temporale che schiantava le viti. Mamma Margherita, nella chiesa, aveva imparato a pregare, e lo insegnava ai suoi figli. Per Giovanni pregare voleva dire parlare con Dio in ginocchio sul pavimento della cucina, pensare a lui seduto sull’erba del prato, fissando lo sguardo al cielo. Da sua madre, Giovanni imparò a vedere Dio anche nella faccia degli altri, dei più poveri: nella faccia dei miseri che l’inverno venivano a bussare alla porta della loro casetta, e ai quali Margherita rattoppava le scarpacce e dava un brodo caldo.

 

 

Il grande sogno

A 9 anni, Giovanni ha il primo, grande sogno che marchierà tutta la sua vita.

A quell’età ho fatto un sogno. Sarebbe rimasto profondamente impresso nella mia mente per tutta la vita. Mi pareva di essere 1779378_10202478507555375_1492464824_nvicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una grande quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla.

Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi. Aggiunse “Dovrai farteli amici con bontà e carità, non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa cattiva, e che l’amicizia con il Signore è un bene prezioso”. Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante, che non ero capace a parlare di religione a quei monelli. In quel momento i ragazzi cessarono le risse, gli schiamazzi e le bestemmie, e si raccolsero tutti intorno a colui che parlava.

Quasi senza sapere cosa dicessi gli domandai: “Chi siete voi, che mi comandate cose impossibili?” “Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili – rispose dovrai renderle possibili con l’obbedienza e acquistando la scienza”. “Come potrò acquistare la scienza?” “Io ti darò la maestra. Sotto la sua guida si diventa sapienti, ma senza di lei anche chi è sapiente diventa un povero ignorante”. “Ma chi siete voi?” “Io sono il figlio di colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno”. “La mamma mi dice sempre di non stare con quelli che non conosco, senza il suo permesso. Perciò ditemi il vostro nome”. “Il mio nome domandalo a mia madre”. In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima.

Vedendomi sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese con bontà per mano e mi disse: “Guarda”. Guardai e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c’era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse: “Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli”. Guardai ancora, ed ecco che al posto di animali feroci comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano, correvano, belavano, facevano festa attorno a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, nel sogno, mi misi a piangere.

Dissi a quella signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una mano sul capo e mi disse: “A suo tempo, tutto comprenderai”.

(Memorie di san Giovanni Bosco, p.14)
03-Don_Bosco_ragazziGli anni che seguirono furono orientati da quel sogno. Figlio e madre videro l’indicazione di una strada per la vita. A far del bene ai ragazzi, Giovanni ci prova subito. Quando le trombe dei saltimbanchi annunciano una festa patronale sulle colline intorno, Giovanni ci va, e si mette in prima fila davanti ai ciarlatani che danno spettacolo. Studia i trucchi dei prestigiatori, i segreti degli equilibristi. Una sera di domenica, Giovanni dà il suo primo spettacolo ai ragazzi delle case vicine. Fa miracoli di equilibrio con barattoli e casseruole sulla punta del naso. Poi balza sulla corda tesa tra due alberi, e vi cammina tra gli applausi dei suoi piccoli spettatori. Prima del brillante finale, ripete la predica sentita alla Messa del mattino, e invita tutti a pregare. I giochi e la parola di Dio cominciano a «trasformare» i suoi piccoli amici, che con lui pregano volentieri.

A quale età cominciai a occuparmi dei fanciulli? Me l’hanno domandato tante volte. Posso rispondere che a dieci anni facevo già ciò che mi era possibile, cioè una specie di oratorio festivo. Ero piccolo piccolo, ma cercavo di capire le inclinazioni dei miei compagni. Fissavo qualcuno in faccia e riuscivo a leggere i progetti che aveva nella mente.

Per questa caratteristica, i ragazzi della mia età mi volevano molto bene, e nello stesso tempo mi temevano. Ognuno mi voleva come suo amico o come giudice nelle contese. Facevo del bene a chi potevo, del male a nessuno. Cercavano di avermi amico perché, nel caso di bisticci nel gioco, li difendessi.

Infatti di statura ero piccolo, ma avevo una forza e un coraggio che mettevano timore anche ai più grandi. Così, quando nascevano risse, liti, discussioni, io ero scelto come arbitro, e tutti accettavano le mie decisioni.

(Memorie di san Giovanni Bosco, p.19)

 

Quelli che avevano cercato di farmi partecipare alle loro squallide imprese, a scuola erano un disastro. Così cominciarono a rivolgersi a me in maniera diversa: mi chiedevano la carità di prestare loro il tema svolto, la traduzione fatta. Il professore, venuto a conoscere la faccenda, mi rimproverò severamente. “La tua è una carità falsa – mi disse –, perché incoraggi la loro pigrizia. Te lo proibisco assolutamente”. Cercai una maniera più corretta per aiutarli. Spiegavo ciò che non avevano capito, li mettevo in grado di superare le difficoltà più grosse.

Mi procurai in questa maniera la riconoscenza e l’affetto dei miei compagni. Cominciarono a venire a cercarmi durante il tempo libero per il compito, poi per ascoltare i miei racconti, e poi anche senza nessun motivo, come i ragazzi di Morialdo e di Castelnuovo.

Formammo una specie di gruppo, e lo battezzammo Società dell’Allegria. Il nome fu indovinato, perché ognuno aveva l’impegnoAUSILIATRICE-bollettinoRID di organizzare giochi, tenere conversazioni, leggere libri che contribuissero all’allegria di tutti. Era vietato tutto ciò che produceva malinconia, specialmente la disobbedienza alla legge del Signore. Chi bestemmiava, pronunciava il nome di Dio senza rispetto, faceva discorsi cattivi, doveva andarsene dalla Società. Mi trovai così alla testa di un gran numero di giovani. Di comune accordo fissammo un regolamento semplicissimo:

1.     Nessuna azione, nessun discorso che non sia degno di un cristiano.

2.     2. Esattezza nei doveri scolastici e religiosi.

(Memorie di san Giovanni Bosco, p.38)

 

Giovanni è sicuro che, per far del bene a tanti ragazzi, deve studiare e diventare prete. Ma il fratello Antonio, che ha già 18 anni ed è un contadino rozzo, non ne vuol sapere. Gli getta via i libri, lo picchia.

Una gelida mattina del febbraio 1827, Giovanni parte da casa e va a cercarsi un posto di garzone. Ha solo 12 anni, ma per le violente litigate con Antonio, in casa la vita è ormai impossibile. Per tre anni lavora come ragazzo di stalla nella cascina Moglia, vicino a Moncucco. Conduce le bestie al pascolo, munge le mucche, porta il fieno fresco nelle mangiatoie, guida i buoi che arano i campi. Nelle lunghe notti d’inverno e seduto all’ombra degli alberi d’estate (mentre le mucche brucano intorno) torna ad aprire i suoi libri, a «studiare».
Tre anni dopo, Antonio si sposa. Giovanni può tornare a casa e frequentare prima le scuole di Castelnuovo, poi quelle di Chieri. Per mantenersi impara a fare il sarto, il fabbro, il barista, dà ripetizioni.

A vent’anni, nel 1835, Giovanni Bosco prende la decisione più importante della sua vita: entra in Seminario. Sei anni di studi intensi, che lo portano al sacerdozio.

 

 

Diventa «Don Bosco»

5 giugno 1841. L’Arcivescovo di Torino consacra prete Giovanni Bosco. Ora «Don Bosco» potrà finalmente dedicarsi ai ragazzi disperati che ha visto in sogno. Va a cercarli per le strade di Torino.

«Fin dalle prime domeniche – testimoniò un ragazzo che incontrò in quei primi mesi, Michelino Rua – andò per la città, per farsi un’idea delle condizioni morali dei giovani». Ne rimase sconvolto. I sobborghi erano zone di fermento e di rivolta, cinture di desolazione. Adolescenti vagabondavano per le strade, disoccupati, intristiti, pronti al peggio. Li vedeva giocare a soldi agli angoli delle strade con la faccia dura e decisa di chi è disposto a tentare qualunque mezzo per farsi largo nella vita.

Accanto al mercato generale della città (che in quel momento aveva 117 mila abitanti) scoprì un vero «mercato delle braccia giovani». «La parte vicina a Porta Palazzo – scriverà anni dopo – brulicava di merciai ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri ragazzi che vivacchiavano alla giornata».

Quei ragazzi per le strade di Torino erano un «effetto perverso» di un avvenimento che stava sconvolgendo il mondo, la «rivoluzione industriale». Nata in Inghilterra, aveva passato rapidamente la Manica e scendeva a sud. Avrebbe portato un benessere mai pensato nei secoli precedenti, ma l’avrebbe fatto pagare con un pauroso costo umano: la questione operaia, gli ammassi di famiglie sotto-povere alle periferie delle città, immigrate dalle campagne in cerca di fortuna.

 

 

Ragazzi in prigione

22600BBL’impressione più sconvolgente, don Bosco la provò entrando nelle prigioni. Scrisse: «Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d’ingegno sveglio, vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece orrore».

Uscendo, aveva preso la sua decisione: «Devo impedire ad ogni costo che ragazzi così giovani finiscano là dentro». Le parrocchie in Torino erano 16. I parroci sentivano il problema dei giovani, ma li aspettavano nelle sacrestie e nelle chiese per i catechismi comandati. Non si accorgevano che, sotto l’ondata della crescita popolare e dell’immigrazione, quegli schemi di comportamento erano saltati. Occorreva tentare vie diverse, inventare schemi nuovi, provare un apostolato volante tra botteghe, officine, mercati. Molti preti giovani ci provavano. Don Bosco avvicinò il primo ragazzo immigrato 1’8 dicembre 1841. Tre giorni dopo attorno a lui erano in nove, tre mesi dopo venticinque, nell’estate ottanta. «Erano selciatori, scalpellini, muratori, stuccatori che venivano da paesi lontani», ricorda nelle sue brevi Memorie.

Nasce il suo oratorio. Non è una faccenda di beneficenza, né si esaurisce alla domenica. Cercare un lavoro per chi non ne ha, ottenere condizioni migliori per chi è già occupato, fare scuola dopo il lavoro ai più volenterosi diventa l’occupazione fissa di don Bosco.

Alcuni dei suoi ragazzi, però, alla sera non sanno dove andare a dormire. Finiscono sotto i ponti o negli squallidi dormitori pubblici. Tenta due volte di dare ospitalità: la prima gli portano via le coperte, la seconda gli svuotano anche il piccolo fienile.

Ritenta, ottimista testardo. Nel maggio 1847 ospita nelle tre stanze che ha affittato nel quartiere basso di Valdocco, e dove abita con sua madre, un ragazzotto immigrato dalla Valsesia. – Avevo tre lire quando sono arrivato a Torino – dice il ragazzo seduto accanto a fuoco, ma non ho trovato lavoro, e non so dove andare.

 

Durante quel primo inverno cercai di consolidare il piccolo Oratorio. Il mio scopo era di raccogliere soltanto i ragazzi più esposti al pericolo di rovinarsi, specialmente quelli usciti dalle carceri. Tuttavia, per avere una base di ordine e di bontà, invitai all’Oratorio anche altri ragazzi istruiti e di buona condotta. Questi mi davano una mano nel conservare un po’ di ordine, e mi aiutavano a far lettura e a eseguire canti sacri. Mi accorsi fin dall’inizio, infatti, che senza canti e senza libri di lettura divertente, le nostre riunioni festive sarebbero state un corpo senz’anima.

La festa la passavo in mezzo ai miei giovani.

Durante la settimana andavo a visitarli sul luogo del loro lavoro, nelle officine, nelle fabbriche. Questi incontri procuravano 201310 Basilica-interno4grande gioia ai miei ragazzi, che vedevano un amico prendersi cura di loro. Facevano piacere anche ai padroni, che prendevano volentieri alle loro dipendenze giovani assistiti lungo la settimana e nei giorni festivi.

Ogni sabato tornavo nelle prigioni con la borsa pena di frutti, pagnotte, tabacco. Il mio scopo era di mantenere i contatti con i ragazzi che per disgrazia erano finiti là dentro, aiutarli, farmeli amici, e invitarli all’Oratorio appena fossero usciti da quel luogo triste.

(Memorie di san Giovanni Bosco, p.107)

 

La vita religiosa, nel nuovo Oratorio, si svolgeva come al Rifugio. Ma c’erano delle difficoltà. Non ci era permesso celebrare la Messa, né dare la benedizione eucaristica. I ragazzi non potevano perciò fare la Comunione, che è l’elemento fondamentale del nostro Oratorio. La stessa ricreazione era molto disturbata: i ragazzi dovevano giocare sulla strada o sulla piazzetta davanti alla chiesa, mentre passavano carri e cavalli. Non avendo niente di meglio, ringraziavamo il Cielo per quel poco che ci aveva concesso, ma aspettavamo una località migliore. Ci caddero però addosso delle gravi opposizioni.

Gli addetti ai mulini e le loro famiglie erano disturbate dai giochi, dai canti e dalle grida dei nostri ragazzi. Cominciarono quindi a lamentarsi con il Municipio. Fu allora che cominciarono a diffondersi voci inquietanti nei nostri riguardi. I raduni dell’Oratorio, si diceva, erano pericolosi. Poiché i giovani obbedivano ad ogni mio cenno, la loro massa poteva essere usata per sommosse e rivoluzioni. Si diceva anche (senza nessuna prova) che i ragazzi guastavano tutto, in chiesa e fuori chiesa, che demolivano addirittura il selciato. Se non venivamo subito allontanati, sembrava che Torino dovesse crollare.

(Memorie di san Giovanni Bosco, p.120)

LA TETTOIA PINARDI

donboscomalta_1“La domenica seguente, solennità di Pasqua (12 aprìle 1846), si trasportarono colà tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione e andammo a prendere possesso della nuova località”.Così don Bosco nelle sue Memorie.12 aprile: data memoranda nella storia dell’Oratorio! La povera tettoia-cappella era la prima sede fissa dell’opera di don Bosco e doveva diventare il centro intorno a cui sarebbe a poco a poco sorta la vasta Casa Madre della Società Salesiana.
Che cosa avvenne in quel giorno di Pasqua entro e intorno alla misera tettoia dì casa Pinardi? Fu semplicemente una presa di possesso per preparare in essa la nuova cappella? Oppure si compì in quel giorno stesso qualche funzione religiosa?
Chi parlò ai giovani dell’Oratorio? Quando vi si celebrò, e da chi, per la prima volta la Messa? Don Bosco non ne fa cenno alcuno nelle sue Memorie, limitandosi a dire che in quella domenica, solennità di Pasqua, si prese possesso della nuova località trasportandovi tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione.

“Ad una certa ora trovandovisi ormai una buona parte dei giovani, don Bosco vi fece trasportare dal Rifugio e dal casotto dei prato (Filippi), ove si conservavano, gli attrezzi di chiesa e di ricreazione e così insieme con lui presero possesso del nuovo Oratorio. Due signore benefattrici stesero sull’altare un finissimo lino regalato dal teologo Carpano e che esse avevano adattato a tovaglia, mentre il teologo, che da qualche settimana non si era più fatto vedere, disponeva i candellieri, la croce, la lampada e un piccolo quadro dei Patrono San Francesco di Sales.

Don Bosco in quel mattino stesso benedisse e dedicò al divin culto in onore.

 

DOV’ERA E COM’ ERA LA TETTOIA PINARDI

La casa Pinardi, che il 12 aprile aveva accolto don Bosco e il suo Oratorio nella misera tettoia convertita in cappella, sorgeva lungo la via della Giardiniera, isolata in mezzo ai campi della regione Valdocco e poco distante dalla casa Moretta e dal prato Filippi.

Francesco Pinardi di Arcisate (Varese) l’aveva acquistata il 14 luglio dei 1845 (Atto rogato Giovanni Pio De Amicis) dai fratelli Giovanni, Antonio e Carlo Filippi per la somma di lire 14 mila di cui, dice l’atto, furono subito sborsate e numerate lire 3618,20… in buona moneta corrente. I fratelli Filippi vendettero al Pinardi “una pezza di terreno di tavole novantasette, piedi quattro, once una e punti sei, con casa entrostante e muri di cinta… come il tutto trovasi descritto nella frainserta perizia giudiziale dei signor architetto Bertolotti e nella figura dimostrativa dello stesso signor architetto”.

Quando e da chi fu costruita la tettoia Pinardi? Il Pinardi che aveva comprato la casa nel luglio 1845, POCO dopo, e precisamente con scrittura in data 10 novembre dei medesimo anno, la cedeva in affitto al signor Pancrazio Soave di Verolengo (Torino). Nella descrizione che nella scrittura vien fatta della casa e del terreno è detto espressamente: rimane esclusa la tettoia che si sta costruendo dietro detta casa, nonchè il terreno esistente davanti la medesima.

Dunque la storica tettoia fu costruita dal Pinardi stesso nel novembre dei 1845 e fu esclusa dal contratto d’affitto che egli fece in quei giorni col Pancrazio Soave.

La tettoia non era adunque un locale antico e abbandonato, diventato convegno di faine e nido di gufi come la fantasia potrebbe immaginare, ma una semplice e povera rimessa, di recente costruzione, e che in quei giorni serviva come magazzino per alcune donne che facevano il bucato nella lavanderia che era presso il canaletto irriguo.

La Provvidenza disponeva così che mentre don Bosco si avvicinava alla sua mèta, il buon Pinardi gli preparasse, senza saperlo, l’umile nuova dimora, mantenendo anche libero dinanzi alla tettoia un tratto di terreno che doveva diventare il primo cortile dell’Oratorio. Il Pinardi aveva promesso a don Bosco di eseguire prontamente tutti i lavori che erano necessari per rendere abitabile la sua povera tettoia.

 

Il problema dei soldi

Dopo il ragazzo della Valsesia, in quel 1847, ne arrivano altri sei. In quei primi mesi i soldi cominciano a diventare un problema don-boscodrammatico per don Bosco. Lo saranno per tutta la sua vita. La sua prima benefattrice non è una contessa, ma sua madre. Margherita, povera contadina di 59 anni, ha lasciato la sua casa ai Becchi per venire a far da madre ai barabbotti. Di fronte alla necessità di mettere qualcosa in tavola per i ragazzi, vende l’anello, gli orecchini, la collana che fino allora aveva custodito gelosamente. I ragazzi ospitati da don Bosco diventano 36 nel 1852, 115 nel 1854, 470 nel 1860, 600 nel 1861, fino a toccare il tetto di 800.

E tra quei ragazzi, qualcuno chiede di «diventare come lui», di spendere la vita per altri ragazzi in difficoltà. Nascerà così la Congregazione Salesiana. I primi a farne parte sono Michelino Rua, Giovanni Cagliero (che diventerà cardinale), Giovanni B. Francesia.

Nell’archivio della Congregazione Salesiana si conservano alcuni documenti rari: un contratto di apprendistato in carta semplice, datato novembre 1851; un secondo in carta bollata da centesimi 40, con data 8 febbraio 1852; altri con date successive. Sono tra i primi contratti di apprendistato che si conservano in Torino. Tutti sono firmati dal datore di lavoro, dal ragazzo apprendista e da don Bosco. In quei contratti, don Bosco mette il dito su molte piaghe. Alcuni padroni usavano gli apprendisti come servitori e sguatteri. Egli li obbliga a impiegarli solo nel loro mestiere. I padroni picchiavano, e don Bosco esige che le correzioni siano fatte solo a parole. Si preoccupa della salute, del riposo festivo, delle ferie annuali. Ma nonostante ogni sforzo, ogni contratto, la condizione degli apprendisti, in quel tempo, rimane troppo dura.

 

Martellare una suola e maneggiare la lesina

Nell’autunno del 1853 don Bosco rompe gli indugi e inizia nell’Oratorio di Valdocco i laboratori dei calzolai e dei sarti. Quello dei calzolai è piazzato in un locale strettissimo, accanto al campanile della prima chiesa che ha appena costruito. Don Bosco si siede a un deschetto, e davanti a quattro ragazzini martella una suola. Poi insegna a maneggiare la lesina e lo spago impeciato.

Dopo i calzolai e i sarti vengono i legatori, i falegnami, i tipografi, i meccanici. Sei laboratori in cui i posti privilegiati sono per «gli orfani, i ragazzi totalmente poveri e abbandonati». Per questi suoi laboratori, che presto trapianta in altre opere salesiane fuori Torino, don Bosco «inventa» un nuovo genere di religiosi: i coadiutori salesiani. Di uguale dignità e diritti dei preti e chierici, ma specializzati per le scuole professionali. (Alla morte di don Bosco, le scuole professionali salesiane saranno 14, distribuite in Italia, Francia, Spagna e Argentina. Cresceranno fino a toccare il numero di 200, sparse nel mondo).

 

Parola d’ordine: «Subito»

Nel dialogo tra don Bosco e il primo ragazzo immigrato (I’ha lasciato scritto lui stesso) c’è la parola «subito». Sembra una parola come tante altre, invece diventa la parola d’ordine di don Bosco, tirato dentro l’azione dall’urgenza, dall’impossibilità di aspettare. Nell’incertezza della prima rivoluzione industriale, nell’impossibilità di trovare belli e fatti piani e programmi di azione, don Bosco e i primi Salesiani gettano tutte le loro energie per fare «subito» qualcosa per i ragazzi in difficoltà. Sono le necessità urgenti dei giovani che dettano loro i programmi di azione.

chi_siamoI ragazzi hanno bisogno di una scuola e di un lavoro che aprano loro un avvenire più sicuro; hanno bisogno di poter essere ragazzi, cioè di scatenare la loro voglia di correre e saltare in spazi verdi, senza intristire sui marciapiedi; hanno bisogno di incontrarsi con Dio, per scoprire e realizzare la loro dignità. Pane, catechismo, istruzione professionale, mestiere protetto da un buon contratto di lavoro diventano quindi le «cose» che don Bosco e i Salesiani danno con urgenza ai giovani. «Se incontri uno che muore di fame, invece di dargli un pesce insegnagli a pescare», è stato detto giustamente. Ma è anche vero il rovescio della frase: «Se incontri uno che muore di fame, dagli un pesce, perché abbia il tempo di imparare a pescare». Non basta il «subito», l’intervento immediato, ma non basta nemmeno «preparare un futuro diverso», perché intanto i poveri muoiono di miseria.

 

Don Bosco si è sempre rifiutato di “teorizzare” la sua pedagogia, come se ci fosse una ricetta preziosa che risolvesse ogni problema educativo. Per questo ricordiamo alcune frasi del santo che, nella loro semplicità, svelano una scelta precisa a favore dei più piccoli, senza calcoli, né riserve.

“Gli voglio bene. Tutto qui”.

“Il mio sistema si vuole che io esponga! Ma se neppure io lo so! Sono sempre andato avanti senza sistemi, come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano!”.

“Se noi vorremo umiliarli perché siamo superiori, ci renderemo ridicoli”.

“Dolcezza in tutto, e chiesa sempre aperta”.

“I giovani non solo devono essere amati, ma devono sentire di essere amati”.

“Si prendono più mosche con un piatto di miele che con un barile di aceto”.

“La nostra è una casa. Si vive in famiglia”.

“Il mio sistema? La carità e il timor di Dio”.

“Passa coi giovani tutto il tempo possibile”.

“Parlare, parlare! Avvertire, avvertire!”.

“Abbi l’occhio sempre aperto, aperto e lungo”.

“Con quelli permalosi siate ancora più benigni”.

“I parenti ce li affidano per l’istruzione, ma il Signore ce li manda affinché noi ci interessiamo delle loro anime”.

 

«Io non ho fatto niente»

Negli anni che seguono, con un lavoro a volte estenuante, don Bosco realizza opere imponenti. Accanto ai Salesiani fonda l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e i Cooperatori Salesiani. Costruisce il santuario di Maria Ausiliatrice in Valdocco e fonda 59 case di Salesiani in sei nazioni. Inizia le «Missioni Salesiane» inviando preti, coadiutori e suore nell’America Latina. Pubblica e scrive lui stesso collane di libri popolari «per la gente cristiana e i ragazzi del popolo». Inventa un «sistema di educazione» familiare, fondato su tre valori: Ragione, Religione, Amorevolezza, che presto tutti riconoscono come «il sistema ideale» per educare i giovani. Quando qualcuno gli elenca le opere che ha creato, don Bosco interrompe brusco: «Io non ho fatto niente. È la Madonna che ha fatto tutto». Gli ha tracciato la strada con quel misterioso «sogno», quando era un ragazzetto.

Morì all’alba del 31 gennaio 1888. Ai Salesiani che vegliavano attorno al suo letto, mormorò nelle ultime ore: «Vogliatevi bene come fratelli. Fate del bene a tutti, del male a nessuno.. . Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso».